Uno dei più grandi problemi degli scrittori, che assolutamente non mi reputo di essere né di esserlo ancora diventato, molte volte è costituito dal principio del testo che vogliono cominciare a scrivere. E’ il cosiddetto “Terrore della pagina bianca”. Personalmente invece è un problema che non ho mai avuto nemmeno a scuola: nel caso di questo post, poi, men che meno.
Gli “incipit” mi si presentano a iosa e alla fine sceglierò questo, per me azzeccatissimo, anche se lo devo prendere a prestito ad un famoso e magnifico film di fantascienza.
Inizierò così: “Io ne ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi!”. Non ho visto “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione né i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser”, ma quelle che pensavo fino a ieri essere i parti più o meno fantasiosi delle penne dei navigatori-scrittori sono invece rappresentazioni reali di situazioni meteorologiche incredibili!
Quindi posso dirvi anch’io del vento che nel giro di un’ora passa dall’intensità di 20 nodi (un gentile “forza 4”) a 55 nodi con raffiche a più di 65 (un furioso “forza 11”). E di conseguenza il mare che non si limita “alle onde di apprezzabile altezza” secondo la compassata descrizione dell’Ammiraglio Beaufort ma a dei palazzi di 8 piani che si alzano verticali (veramente verticali!! Oh, davvero verticali, non fate finta di niente!) dietro la poppa della barca e la ghermiscono per trascinarla in folli planate a 12/13 nodi e forse più. Guardate l’immagine dello screenshot dell’applicazione Navionics Boating dove si vede la velocità massima raggiunta dalla barca: 14,3 nodi!
Niente o poco più di niente per i moderni mostri della VOR o del Vendèe Globe ma roba da Formula 1 per una barca classica da 17 tonnellate e di 44 anni di età, che ha come velocità limite teorica (definizione valida solo per le barche dislocanti com’è il Tatì) la modestissima velocità massima di 9,92 nodi !! Cioè 9,92 miglia all’ora…
Ripartivo da Città del Capo dopo la piacevolissima e necessaria sosta di due settimane dopo il lungo tragitto da Capo Verde, durante la quale avevo fatto un “tagliando” completo alla barca, al motore ed all’attrezzatura. Soprattutto le vele avevano bisogno dello uno sguardo approfondito ed esperto del velaio dopo più di 10.000 miglia già percorse dalla partenza dall’Italia.
In primis la randa che mostrava più di una scucitura soprattutto della balumina, un paio di buchi ed abbisognava della terza mano di terzaroli che in origine non avevo voluto far predisporre. Che si è rivelata invece proprio una “Mano santa”, utilizzata subito due giorni dopo la partenza e tenuta fin’oltre i 40 nodi, allorchè ho ammainato anche quel fazzoletto ed ho proseguito la folle corsa con il solo Yankee per poi eliminarlo alle prime raffiche di oltre cinquanta nodi.
Come saggezza impone, dunque, era già da tre giorni prima di domenica 28 ottobre che studiavo le carte meteo locali (confrontandomi con gli esperti locali e con l’equipaggio di Weddell, un Grand Mistral di 80 piedi che sarebbe partito con me alla volta di Sidney dove avrebbe partecipato alla Sidney-Hobart: gente professionista!) ed era effettivamente prevista una depressione da Nord Ovest che, secondo i modelli matematici, avrebbe generato una situazione con al massimo 40 nodi di vento e per un tempo limitato, circa 4 ore. Quindi considerata la direzione del vento e la situazione del mare poco mosso dei giorni precedenti, la mia riflessione (corretta in teoria) era stata quella di considerare molto poco probabile la formazione di un moto ondoso preoccupante nel volgere di così poco tempo. Ed è stata la durata (oltre che l’intensità generale del sistema) ad essere il peggior errore che Windy poteva commettere: altro che 4 ore! Il caravanserraglio ne sarebbe durato 22 e più!!
Adesso vediamo, se riesco con le parole, a rendere le immagini che sono ancora perfettamente chiare nella mia memoria… Prima di lanciarmi nel tentativo di descrivere la “mia” Tropical Storm (che potrei chiamare Albert come la foca sul pontile, vista la recente moda di dare un nome alle tempeste) devo però raccontarvi del più fantasmagorico spettacolo di animali marini che abbia mai visto in vita mia: solo questo mi ha ricompensato dell’ansia, della fatica e di tutte le preoccupazioni che avrei passato.
Quattro o cinque ore prima che il vento cominciasse a soffiare davvero forte, con un mare già molto mosso ed il cielo plumbeo, a circa 300 metri dal mascone di sinistra si sono levate verticali sull’acqua tre vere e proprie colonne, che roteando su se stesse sono poi ripiombate nel mare con un’esplosione di spruzzi favolosa. Ho fatto fatica ad associare prelevandole dall’archivio della memoria le immagini coerenti con quanto avevo appena visto. Ma eccole di nuovo, prima una e poi altre due insieme, in perfetta sincronia
Si trattava di una famiglia di tre Megattere, due adulte e un balenottero, che da sole e spesso contemporaneamente hanno eseguito per almeno 7/8 volte queste acrobazie!
Erano davvero vicine ma purtroppo non avevo alcuno strumento sottomano per poter immortalare questa scena davvero da premio fotografico! ** Vedere queste tre meraviglie della natura, coi loro ventri bianchi e le enormi pinne ventrali aperte come ali d’aeroplano, giocare col vento (o forse eseguendo delle tecniche per insegnare al balenottero a cacciare, come mi ha spiegato Manuel) è stata un’esperienza da lasciare davvero a mandibola spalancata! Un’altra cosa meravigliosa l’avrei vista più avanti, prima che facesse buio, ma purtroppo ero già piuttosto preso da ben altre faccende per poterla apprezzare appieno….: branchi di delfini che spuntavano fuori a decine dalle onde per fare salti di metri e metri nel vuoto prima di trovare nuovamente l’acqua ed immergersi e scomparire. Magnifico anche questo, solo adesso lo posso dire
Verso le 16 Gmt, dunque, cominciava a mettersi brutta. L’anemometro si stabilizzava sempre più sopra i 30 nodi e le raffiche, per ora abbastanza dolci rispetto al vento medio, mostravano numeri ancora contenuti e sempre sotto il 40. Tatì col vento al lasco/gran lasco e la velatura opportuna, non ha alcun problema ad affrontare questa intensità di vento. Inoltre non aveva cominciato ancora a piovere e la velocità era davvero entusiasmante. Ancora si procedeva con yankee, trinchetta e tre mani alla randa ad 8/9 nodi di velocità e con la barca perfettamente asciutta. Ma l’intensità aumentava. Però non ero preoccupato; fino a qui era tutto perfettamente previsto. Fra 4 ore al massimo si sarebbe riportato ad un WNW di 25/28 nodi, ideale per cominciare a macinare miglia verso SSE. Mi stavo proprio divertendo, una velata fantastica. E con l’immagine di quelle balene vivissima nella mente.
Ma invece aumentava ancora e cominciava il crepuscolo: allora decido di cominciare a ridurre per non trovarmi con troppe vele da gestire col buio. Con tutta calma ammaino e sistemo ben ordinata e legata in coperta la mia splendida trinchetta (la vela più intelligente che si sia mai inventata secondo me!) Lo yankee tirava benissimo e restava tutto perfettamente equilibrato, con quella terza mano alla randa che non avevo mai avuto prima e che volevo provare per bene, valutandone il contributo all’equilibrio generale della barca. Ma aumentava ancora e ancora, il cielo si faceva sempre più scuro….. Un’altra decisione era da prendere: davvero pochi secondi prima che scattasse l’impulso ad abbandonare la panca del timoniere per cominciare a lavorare sulla randa per ammainarla e ripiegarla con tutta calma sul boma, il bozzello nuovo, appena predisposto proprio per l’ultima riduzione della mia “Grand voile”, esplode di schianto mettendo in bando la vela che si spiaccica in un attimo sulle sartie basse facendo ripiegare le stecche in una maniera preoccupante verso prua. Soffocando un’espressione riprovevole dal punto di vista del catechismo classico, corro all’albero e con infinita dolcezza – il massimo date le circostanze – riesco ad ammainare questi pochi metri quadrati di tela senza provocare alcuno strappo e salvaguardando le stecche che resistono senza spezzarsi.
Per ora Mustafà riusciva ancora a gestire con buona precisione la direzione della barca rispetto al vento e quindi avevo del tempo per lavorare con calma per imbrogliare la tela con gli elastici e le fettucce. Ritorno alla postazione del timoniere per seguire meglio la situazione e per aiutare il timone a vento (Mustafà è il suo vero nome, non il solito personale nomignolo inventato…) e gestire un’intensità dell’aria che ormai faceva apparire sempre più spesso sul display dell’anemometro i numeri compresi nella decina dei 40 con raffiche a 47/48. La barca solo con quel fiocchetto volava sopra i 9 nodi costanti con qualche piacevole (per adesso) planatina che le faceva superare i 10…
Le quattro ore della previsione (sempre più bugiarda!) di durata del colpo di vento erano ormai spirate da un pezzo ed anziché mollare rinforzava…e rinforzava sempre più. E il buio completo stava scendendo, accompagnato da un cielo nuvoloso che non mi avrebbe fatto beneficiare nemmeno della luce della luna, calante ma ancora a poco meno tre quarti della sua dimensione quindi molto luminosa col cielo sereno. Quindi decido di effettuare una scelta che si è rivelata azzeccatissima: corro sottocoperta (rapido controllo: ancora tutto al suo posto, niente acqua in sentina e tutto al proprio posto. Insomma tutto tranquillo) per dare il contatto al motore il cui starter sulla mia barca si trova all’esterno. Intanto – sante abitudini! – serro con decisione i galletti degli osteriggi della cabina di poppa e del bagno e chiudo completamente l’ingresso sottocoperta tirando il passauomo a baionetta e collocando anche il plexiglass sull’ingresso. Poi chiudo ermeticamente anche la capottina di protezione con tutte le sue ritenute, le sue cerniere lampo e gli elastici. Praticamente mi sono chiuso fuori! E ho fatto bene, perché dentro non ci sarei più potuto andare per le successive 48 ore….
Altra attività necessaria qualche tempo dopo: al primo apparire del numero 52 sull’anemometro mi infilo la cintura di sicurezza e scorrendo la lifeline di sinistra fino all’albero, sciolgo la drizza dello yankee dal self tailing del winch. Correttamente addugliata al termine della manovra di issata (sante abitudini!) scorre velocissima dentro l’albero consentendo un’ammainata veloce e senza intoppi. Imbroglio la vela in un attimo e mi precipito a poppa ritornando nuovamente al timone. Da questo momento, a secco di vele, sarà un unico e terribile “momento” di gioco tra timone e motore per cercare di mantenere la prua il più possibile nella direzione delle onde che si facevano sempre più veloci, sempre più alte e sempre più ripide.
Tutt’intorno era solo acqua vaporizzata con i frangenti più piccoli che venivano fatti abortire dalla rabbia del vento che li strappava dalle creste delle onde per farli partire come proiettili d’acqua e disintegrarsi contro le masse che trovavano poco più avanti durante il loro volo senza speranza.
Ma ecco che adesso guardo verso il basso. Perche? Lo sguardo è verso la prua ma verso il basso. La barca è a più di 60 gradi rispetto al piano orizzontale…è un “beccheggio” anormale, malato…. E che accelerazione….. non sono abituato a questa accelerazione, a questa velocità….. Sono più sensazioni da pilota di auto da corsa che da timoniere di barche a vela. E mentre la velocità aumenta – la stimo a più di 11/12 nodi – il frangente che viaggia ancor più veloce passa sotto la barca. Ed è più aria che acqua e il timone diviene inutile ed anche l’elica che cavita affannosamente nel vuoto genera uno strano rumore del motore che da solo aumenta notevolmente di giri. Poi è il contrario: la poppa “si siede” e tutto sembra farsi risucchiare e rallentare. Forse la velocità è di 2 o 3 nodi al massimo.
Non so cosa preferire, la lentezza dona una momentanea sensazione di tranquillità, ma so che il prossimo frangente mi investirà con ancor maggiore e micidiale potenza. Allora provo ad accelerare a motore, la barca risponde; comincia così un esercizio estenuante di anticipazione del frangente e governo della remora, tutte le volte che termina la planata. Per fortuna capisco sempre meglio il meccanismo, l’imperativo è uno solo: non distrarsi per non far traversare la barca al mare!!
Ma il mare dove? Quale? Non si vede quasi più nulla! Anche il crepuscolo è terminato.
Sono più di cinque ore che il “colpo di vento” ha avuto inizio, dovrebbe cominciare a placare… Invece no… Diventa buio pesto e le onde non le vedi più ma sai che tutto intorno è una pentola infernale a perdita d’occhio. E comincia pure a diluviare….in orizzontale. E anche questo rumore delle enormi gocce di pioggia sul cappuccio della cerata contribuisce ad aumentare il frastuono tutto intorno. Mi trovo sul banco di Aghulas, famoso per far sì che quando il mare è agitato le onde possano arrivare praticamente da tutto il settore da cui spira in quel momento il vento. Lo so che è così, l’avevo studiato, ne parla Moitessier e tutti gli altri. Ma la realtà da gestire è infinitamente peggio della fantasia che puoi esserti fatto leggendo quelle bellissime pagine. Ti trovi con un fronte alle spalle di circa 150 gradi da cui potrebbe spuntare l’onda che ti farà davvero male. Che puntualmente arriva….
Ormai era più di un’ora che potevo far affidamento solo sull’udito per indovinare la direzione della prossima onda. Ed era l’orecchio destro che ascoltava più distintamente il rumore del frangente e della sua schiuma. Invece la barca prende improvvisamente a virare dalla parte opposta colpita al giardinetto di sinistra da un’onda potentissima e a nulla valgono i miei tentativi e le manovre di timone e motore per cercare di tenerla dritta.
E’ un attimo. La mia prospettiva cambia e diventa orizzontale: l’acqua copre tutta la barca, passa sopra tutto il pozzetto, la cappotina e il boma…. ne vedo il riflesso della schiuma nei deboli fasci delle luci di via.
La barca procede quasi orizzontale sulla superficie del mare (che superficie non è più) per cinquanta forse cento metri. Vedo distintamente la grande crocetta dell’albero che sfiora l’acqua. Tutto il ponte di dritta è sommerso e l’acqua ha ormai completamente invaso il pozzetto che si trasforma in una piscina, mentre per fortuna Tatì si raddrizza, quasi con un colpo di reni, riportando la prua verso destra e quindi potendo far gestire nuovamente al timone la rotta. L’acqua ci mette almeno cinque minuti a defluire dai grossi ombrinali di cui per fortuna è dotato il pozzetto. La pompa di sentina funziona ininterrottamente, segno che dell’acqua è penetrata sottocoperta. Da dove? Rifletto, so da dove: le due prese d’aria del motore sotto la panca del timoniere! Mi contorco per tenere con una mano la ruota del timone e con l’altra cercando di chiudere le lamelle di questo modello di presa d’aria d’acciaio che ho montato a La Rochelle e che consente, non dico di farle diventare stagne ma sicuramente di contenere la quantità d’acqua che possa penetrare di sotto in caso di nuovo allagamento. Una viene ma l’altra è dura e non ce la faccio a mani nude (con le dita intorpidite, completamente intirizzite e con la pelle cotta dall’umidità). La punta delle dita mi fa un male cane. Lascio perdere, speriamo; non posso certo scendere a prendere un paio di pinze!
Tutta la notte andiamo avanti così, con la barca che si sdraierà altre tre volte…. Con il corpo, completamente bagnato sotto la cerata e i piedi a mollo negli stivali, che sussulta per i brividi gelati che contrasto scaldandomi dandoci sotto con la pompa di sentina manuale, dato che da qualche tempo le pompe elettriche sono partite
Il tempo per fortuna scorre veloce, arriva l’alba. Finalmente verso le 10 del mattino di lunedì ho la sensazione netta che stia mollando. Ormai raramente la raffica supera il 35 nodi. Sembra bonaccia in confronto alla sera prima, lo giuro! Il Gps è di sotto, decido una rotta a fantasia. Viro di 40/50 gradi a sinistra, il mare è lunghissimo e molto più basso, al massimo la cresta dell’onda si trova a sei o sette metri dal piano dell’orizzonte e frange molto meno; quindi anche se prendo le onde quasi al traverso la barca viaggia bene quanto a velocità, molto meno quanto a confort, con delle rollate che non vi dico.
Ma non mi interessa, ho preso la mia decisione di rientrare a Città del Capo perché ormai l’elenco delle avarie si fa lungo: il generatore eolico ha tutte le pale spezzate (e dopo il bagnetto sott’acqua credo che sia maturo per essere ricoverato d’urgenza… all’obitorio), lo yankee ha praticamente mezza inferitura stracciata, la terza mano ha il bozzello esploso, la paletta di legno di Mustafà è stata spezzata, tutte e tre le pompe di sentina automatiche non funzionano più, il pilota automatico non risponde ma soprattutto la ruota del timone è diventata sospettosamente morbida tanto che chiaramente compie un paio di giri a vuoto prima di “agganciare” la presa e gestire il cablaggio di governo della pala. Di nuovo tutto necessita di una revisione approfondita.
Di per sé niente che impedisca alla barca di navigare, ma sicuramente non sono le condizioni migliori per affrontare praticamente l’intero Oceano Indiano che, se mi ha fatto vedere il buongiorno già dal secondo mattino, cosa mi riserverà nelle prossime 4000 miglia da percorrere prima di entrare nel Pacifico? No, non è davvero intelligente, si torna in cantiere…e poi di nuovo verso casa.
La mia Longue Route finisce qui
Finisce qui? Ma assolutamente no!
Il senso che mi aspettavo di trovare quando ho deciso di intraprendere questo nuovo pezzo di vita, tradotto in un viaggio in barca a vela in solitario, si è perfettamente svelato. Anzi devo dire che “ha cominciato” perfettamente a svelarsi e non voglio certamente banalizzarlo riferendolo esclusivamente alla mancanza di un suo solo apparente senso compiuto: il compimento di una regata.
Ero perfettamente consapevole dall’inizio che non stavo partecipando per vincere una competizione sportiva; ben altri erano i miei obiettivi – da cercare di individuare più che da raggiungere – e sicuramente molto più “filosofici” che “pratici”. Era lo spirito che aveva indotto Moitessier a non fare ritorno in Francia da probabile vincitore del primo Golden Globe che sentivo di possedere e che volevo comprendere, studiare, analizzare. Insieme con quello di altri esempi che hanno spinto in ogni epoca altri uomini a fare esperienze analoghe, Slocum, Dumas, Alex Carozzo e tantissimi altri…
Sento che c’è una certa poesia in tutto questo, ancor più difficile da descrivere delle immagini delle onde di una tempesta. E quindi sono felice di avere adesso ancora quasi tre mesi di viaggio prima di ritrovare la mia Itaca. Buona giornata a tutti!
Avrei un sacco di altre cose da scrivere ma…..adesso devo andare: devo ancora terminare di sistemare quell’autentico scenario di guerra dopo l’esplosione di un colpo di mortaio che è diventato l’interno della barca
* dal film “Blade Runner” di Ridley Scott con Harrison Ford – super consigliato!
Carissimo Andrea saprai già che sei nel cuore di tutti noi, ti seguiamo con tutto l’affetto del mondo, siamo sicuri che saprai affrontare tutte le avventure che ti aspettano.
AVANTI TUTTA !!!!!!!
P.S.
Non parlare a me di colpi di mortaio, io da militare ero:
Sergente Claudio Tordella, capo arma di Compagnia mortai da 81.
183° Reggimento NEMBO, Divisione FOLGORE.
Motto del NEMBO: “E PER RINCALZO IL CUORE”, non aspettarti aiuti, lancia il cuore oltre ogni ostacolo, fai tuo questo motto e vedrai che nulla e nessuno ti potrà fermare.
Buon Vento, Claudio.
Ciao Andrea ti abbiamo seguito durante questi mesi senza mai scriverti….Anche ora, dall’ Australia, abbiamo continuato a condividere con te la tua emozionante avventura.
Siamo certi che tutto ciò che hai affrontato ti abbia arricchito e rafforzato…
Ti ammiriamo…
Un abbraccio
Fiero e Lella
Grazie Andrea per avere descritto cosi’ bene la tua esperienza, tanto che a tutti – credo – sembrera’ di averla vissuta con te.